Il Sacrificio

Il Sacrificio.

Merville du Midì, I anno Dominio dei Draghi (XIII anno di Linnea) , 20 dicembre –  dalla trama Dominio dei Draghi.

Autore: Linnea

L’odore di cuoio, spezie ed olii é così intenso da farle bruciare gola e occhi, ed è costretta a sbattere più volte gli occhi per evitare che la vista si offuschi. Tutto si consuma attorno a lei così velocemente da renderle quasi impossibile reagire o muoversi. I corpi attorno a lei sono caldi ed umidi, li sente sbattere e premere contro il proprio corpo esile, quasi soffocarla. Saltano, cantano, urlano, si agitano.
Una sensazione di profondo disagio si impossessa di Linnea. Tutte quelle persone, tutti quei corpi, tutto quel contatto la turba, tanto e rendere il suo respiro affannato, le gote rosse. Le mani dei khajiti la spogliano, rivelando cicatrici che non vorrebbe mostrare. Non tanto quelle del corpo, perché quelle sulla schiena sono diventate una rete argenta che scivola elegante lungo le sue vertebre, decorando il profilo delle sue vertebre come un tatuaggio incolore, ma quelle del suo animo. Anche quello é un regalo di Lugh Oghma. Solo sulla schiena, perché Akhetis non avrebbe apprezzato vederla troppo rovinata. Il disagio aumenta, la bocca si fa secca, il respiro veloce.
Per questo quando Guren le mette sotto il naso la bottiglia piena di Skooma ne beve un sorso. È un piccolo sorso, infondo, ma le esplode nella bocca e nel cervello come il respiro di un drago. Per un breve, brevissimo, istante le sembra quasi di soffocare. Poi, lentamente tutto sembra prendere senso. O forse perderlo del tutto.
È forse quello che non doveva bere?
Poco importa, in questo momento le allevia il patimento di essere toccata. Respira lentamente dalla bocca ancora infuocata, tanto bruciata che percepisce l’aria scivolare al suo interno così come sentirebbe l’acqua gelida di un ruscello sul suo corpo.
Il corpo viene stretto da una veste bianca, sopra la quale i khajiti iniziano a posizionare cuoio e ferro. Un corpetto decorato con un drago dalle fattezze feline viene stretto sul suo corpo e sulle sue cicatrici fino a farle male, togliendole il respiro. È il loro dio, Alkhos.
I capelli vengono intrecciati con nastri colorati e perline. Ai polsi si ritrova bracciali da guerriero stretti sui polsi, così come orecchini vengono messi alle sue orecchie, anche dove prima non ci sarebbero stati. La Skooma attutisce il fastidio, tanto che Linnea si ritrova anche a sorridere, qualche volta, ma è sicuramente lo stupore a prevalere sul suo volto.

La società khajita si era evoluta per numerose ere priva dell’influenza umana, elfica o di qualsiasi altra razza reputata accademicamente superiore. Quello che stava accadendo a Linnea non sarebbe stato possibile ritrovarlo su alcun libro o trattato di sociologia dei popoli valligiani. L’Emerito Callonus, se fosse stato in vita, l’avrebbe ceduta volentieri per poter documentare quei momenti. Era la manifestazione più primitiva dell’essenza khajita. In preda al fermento religioso e tradizionale che precede la scesa in guerra di quello che un tempo era con le Turme di cui faceva parte Guren il popolo signore del deserto, si poteva assistere al rito di iniziazione di Khenarthi la Dea dei Venti.
Le donne e le cucciolate portavano le vesti, dietro di loro arrivavano gli anziani del popolo con le armi e le pitture. Erano simbolicamente l’inizio e la fine della guerra, che porta via la bellezza dei giovani e dei loro ideali, gettandoli in pasto al ferro e al fuoco, restituendo Khajiti vecchi e scottati dalla durezza della vita. Per questa la guerra era affare di Khenarthi, perché era turbine e vortice, strappava la vita con le tempeste di sabbia e restituiva anni dopo ossa bianche e lucide, ancora ingioiellate è vestite di tutto punto.
Linnea restava circondata da splendide Khajite, che danzavano perse nei fumi della Skooma e dell’Hanam, code sinuose e orecchie pelose che facevano ribollire il sangue ai giovani. Non c’era nulla di più sensuale di una gatta tigrata con il muso bianco e il pelo dello stesso colore a correrle lungo il petto fino ai seni e se a questo, come per Ra’Navani si aggiungeva la folta peluria delle orecchie era fatta. Quella bellezza sarebbe stata cantata a lungo.
E di sfondo c’erano proprio loro i Tre Ra’ ad osservare.
Diversi l’uno dall’altro incarnavano tre doti Khajite, Ra’Navani era l’agilità e la morte silenziosa, Ra’Motaba era la forza e irruenza giovanile, Ra’Zan’Kir era la tradizione e onore -nonostante il pizzetto inguardabile- osservavano Linnea affrontare lo stesso rituale che avevano subito loro.
L’unico che mancava era il Dar’.
Non era per lui quel momento, era del popolo, si era defilato non appena dato il via ai festeggiamenti. Come un padre che lascia liberi i figli di sfogarsi mentre li sta già piangendo in silenzio. Perché il Dar’ lo sa che pochi torneranno da lui ed è lui a bere in silenzio nella tenda del Re, facendo memoria dei caduti e di coloro che per un’ultima volta amano, ridono e sono parte della sua famiglia. Perché lui è l’unico che in quella gioia non deve fingere e può lasciarsi al dolore.
Linnea ora era vestita perfettamente come una Ra’. Il trucco di guerra, tre graffi azzurri che le deturpavano il volto, le trecce raccolte in una crocchia che lasciavano scoperto il collo e la slanciavano verso l’alto, collo a cui era stato applicata una pesante catena-collare con punzonature d’oro. Altre piccole trecce erano libere di saltellarle dispettose attorno adorne di anelli.
L’armatura di cuoio e ferro era molto leggera, sembrava aver mutuato una stile elfico, forse dovuto allo scambio culturale del passato, ma erano reminiscenze superate forse adatte al deserto e meno ad un vero scontro campale come quello di Kromdar.
Attorno a lei i Khajiti che l’avrebbero seguita indossavano i bracciali della Dea Khenarthi, tra loro vi era anche Do’Husar.
Erano tre gruppi da trenta con a capo un Ra’. Erano il meglio che potevano offrire. Erano il testamento vivente di un popolo, una razza, che aveva popolato per prima la Valle e ora dava l’ultimo sangue nel tentativo di non esser dimenticata.
Ora era il tempo del sangue.

Dal Tempio uscirono i sacerdoti della Dea dei Venti, indossavano una tunica lunga e candida, non portavano gioielli e al fianco di ognuno vi era un lungo coltello rituale dal manico d’argento.
Il corteo era composto da cinque gatti. Camminavano flemmatici, in fila indiana. Il muso, all’altezza degli occhi, era dipinto con una striscia di colore nero che univa le orecchie feline. Erano gli angeli della morte, emissari della Dea più crudele, altri la definivano più giusta poiché non guardava in faccia a nessuno. Probabilmente la verità, come il più delle volte, stava nel mezzo e quel trucco alludeva alla benda che negava la vista alla Dea nelle rappresentazioni votive in pietra.
I sacerdoti non erano soli nella passeggiata che li portava lentamente a visitare tutto il centro città. Circumnavigavano il Tempio del dio Alkosh accompagnati da una vestale, o qualcosa di simile che dopo il loro passaggio schizzava i presenti di un liquido rosso, cupo e denso. Il bastone usato era in realtà una fascina di erbe dal sicuro potere mistico, ma era ciò che gettava a sapere di ferro e suscitare l’eccitazione dei benedetti.
Tutti è i novantatré gatti della Compagnia Khajita furono innaffiati dal liquido, poi i sacerdoti si fecero intorno a Linnea.
Il Piatto Sacrificale era vuoto, doveva esser nuovamente riempito.
Dal fondo di quella processione emerse un giovane Khajita. Era una gatto longilineo, giovane, forse troppo per quello che sarebbe accaduto. Sicuramente lo era per Linnea.
Gli occhi azzurri furono bendati senza che egli protestasse, negandogli la luce e la mira sulla bottiglia di Skooma che fu forzato a bere tutto d’un fiato tanto che in parte gli colò sulle vibrisse macchiandole di bianco latte e rendendo la sua visione ancor più pietosa.
“Linnea, tu che aspiri a guidare in battaglia il popolo Khajita, raccogli attorno a te i tuoi fedeli e compi il sacrificio”.
Fu in quel momento che Linnea rimpianse di non aver vuotato la bottiglia di zucchero lunare fermentato.
I passi che la portarono al fianco dei Sacerdoti correvano troppo veloci e il cuore le pulsava come un tamburo in petto.
Era fin troppo facile capire cosa dovesse fare e doveva farlo davanti a tutti i suoi compagni.
Era orribile pensare a quanto sangue fosse servito fino ad ora per bagnare quei novantatré Khajiti.
Era questa la natura più intima di un popolo che nascondeva nel sorriso i propri orrori e nella droga della Skooma i propri dolori?
Linnea cercò con lo sguardo tutti coloro che l’avevano seguita fino a li, per volontà o destino.
Quando incrociò lo sguardo di J’zargo questo le annuì, negli occhi vi era comprensione per quella situazione surreale, ma nessuna esitazione. Non l’aveva costretta lui a quel gesto, non l’aveva eletta lui a Regina di un Regno in guerra.
“È il momento del sacrificio” era J’zargo a parlare, rivolto a coloro che stranieri non conoscevano gli usi del popolo dei gatti: “La Selede dovrà versare il primo sangue. Rappresenta la scelta e l’impegno che ha contratto con tutto il mio popolo.” il Khajita non si aspettava comprensione per quel gesto e la voce trattenuta in mezzo al silenzio che era calato sembrava ancora troppo rumorosa: “Non farlo sarebbe gettare la malasorte sulla guerra e nessuno scende in guerra con la sfortuna come compagna, e nessuno che sceglie la guerra è spaventato dai sacrifici che questa impone”.
J’zargo poteva solo prestarle i suoi occhi da gatto alla sovrana, poteva farsi carico in modo silenzioso del dolore che avrebbe provato e che non avrebbe mostrato: lei era la regina, era cento re, era lui e tutti i presenti.
Il Sacerdote mise in mano a Linnea il coltello. Era affilato quanto bastava a recidere le arterie e le vene più profonde senza portar dolore. Una morte pulita, pietosa. Se ve ne fosse stata mai una.
Il piccolo Khajita respirava velocemente, Linnea poteva percepire la paura, ma al tempo stesso una profonda serenità. Era uno dei Ri’Sallad, uno dei martiri viventi, nati e cresciuti per quello.
Era il destino dei Khajiti dal pelo bianco. Venivano separati dalle cucciolate e cresciuti nel Tempio, erano il tributo agli Dei più puro e degno di eventi come questo.
Il Primo dei Sacerdoti aiutò Linnea, ma non si sostituì a lei, la guidava nei movimenti, come una madre che spiega alla figlia come preparare una torta.
Era naturale e la carne offrì una blanda resistenza.
Un singulto e con il Sacerdote la Regina accolse tra le braccia quel corpo privo di vita.
Linnea si macchiò del sangue Khajita, era stata la sua scelta, gli occhi di J’zargo non la lasciarono mai era una presenza compassionevole quella del felino e quando il popolo urlò di gioia al sacrificio lui restò impassibile perché i suoi occhi erano quelli di Linnea così come il suo cuore e l’animo lacerato per qualcosa che la Sovrana poteva condannare, ma a cui non poteva sottrarsi.
Linnea era ricoperta di sangue, Linnea era una Ra’.
“Abbiamo una nuova Ra’” disse il Sacerdote, mostrando al popolo Linnea in quello spettacolo di fascino e scempio: “ribattezzata Ra’Shaiva, la portatrice di guerra, del riscatto, ultima dei Ra’Khajiti”.

Il piatto sacrificale fu nuovamente colmato, la vestale poté riprendere il proprio compito, benedicendo di un liquido caldo, rosso, cupo e denso coloro che mancavano.

In sottofondo, Guren che fino a quel momento si era accompagnato alla giovialità di Arroann, si affaccendava per esser il primo a sporcarsi di quel sangue, conosceva i riti e credenze Khajite e non sembrava sconvolto o sorpreso, era orgoglioso della sua Regina: “Guardala J’zargo, è bellissima, spero di trovar una degna morte accanto a lei!”.
Il gatto aggrottò la fronte perplesso: “non capirò mai voi umanoidi, non ha pelo e per giunta solo due capezzoli….”

Gli occhi acquosi della regina riflettono le immagini del mondo che la circonda. I volti dei Khajiti che si susseguono attorno a lei in quella danza che è il rito della sua vestizione. Le unghie passano sul suo volto disegnandole cicatrici blu, simboli di guerra, simboli di un combattente.
E così, quando si ritrova nei panni di un re guerriero, si accorge di non Sentirsi del tutto fuori posto: come una crisalide diventata farfalla anche quella trasformazione di Linnea ne rappresenta una evoluzione.
Non vuole essere una conquistatrice di popoli, non vuole imporre nuovamente il suo dominio, ma vuole combattere. Combattere contro il caos e la cenere che stanno divorando la terra a cui è legata con il sangue.
Ed ecco, attorno a lei, un popolo quasi dimenticato. Un popolo orgoglioso e fiero, antico e vibrante, che si schiera per servire un re che viene da un mondo diverso anche se è il medesimo. Guidare qualcuno che ti si affida completamente non é come muovere pedine di eserciti su una mappa, o come impartire ordini da una tenda fatta di drappi di seta e velluto.
No. Quello che lei si appresta a fare é guidare una ribellione nella sua stessa terra, e quello che farà sarà raccogliere i popoli, uno ad uno. Dovrà guardarli in faccia, conoscerli come mai nessuno dei suoi predecessori ha fatto. Vivere. Vivere con loro. Guardarlo negli occhi come ora sta facendo con quelli dei tre Ra’ e dei loro trenta uomini.
Il cuore dell’ Elfa batte così velocemente che sembra quasi tremare.
Nessuno le ha insegnato quello che sta per fare, nessun libro, nessun Maestro, neppure suo Padre.
Se nella sua mente é difficile crescere per diventare tutto quello, le é quasi impossibile comprendere quello che accade dopo.
Osserva il gruppo di Khajiti, i suoi Khajiti, mentre vengono benedetti con un liquido denso, rosso, vischioso. Ma è solo quando quel piatto vuoto viene rivolto verso di lei, in attesa che lo riempia nuovamente, che si rende conto della natura di quella sostanza.
Sangue.
Non sangue qualsiasi. Sangue di Khajita. Sangue di un sacrificio. Sangue di un innocente.
Un dolore reale, consistente, vivo, le punge il torace, mentre smette di respirare per qualche istante.
Linnea cerca una soluzione, un appiglio, un miracolo forse che la tolga da quella scomoda posizione in cui sta per finire, ma la cosa più simile ad un consiglio che incontra sono gli occhi di J’zargo. Il suo sguardo felino e complice, rassicurante, comprensivo.
Resta qualche istante su di lui. Perdendosi nel taglio verticale della sua iride, cercando in queste la forza per un gesto che nella sua mente e nel suo cuore é assurdo e privo di senso.
Il candido Khajita dal pelo incolore come la neve è davanti a lei, odora di Skooma e di olii speziati. Ne percepisce l’agitazione, ma non sente traccia di paura. La mano del sacerdote si chiude sulla sua, obbligandola a stringere l’elsa della lama sacrificale.
“È il suo destino. Versa il suo sangue perché quello dei suoi fratelli non venga sprecato. Ognuno di loro non ha mai sanguinato una volta nella loro vita prima di adesso. Quando il suo sangue bagnerà te ed i tuoi compagni allora la malasorte sarà accontentata e tenuta a bada”.
Linnea ascolta, le dita strette con troppa forza su quell’arma che non vorrebbe usare. È abituata a vedere giovani morire, certo, ma nell’affrontare prove da loro scelte, non sacrificati dalla mano di un fratello o, peggio ancora, dalla sua.
“Non recare disonore a questo Khajita. Altrimenti ricadrà su di te e su coloro che guiderai. É un sangue che va versato”.
Conosce davvero così poco questo popolo?
Il respiro di Linnea si fa veloce, mentre le guance sotto la pittura blu perdono colore. Versare del sangue prima ancora di combattere. Versare del sangue per loro. In quel momento vorrebbe solo aver bevuto più Skooma.
É un gesto elegante quello che il sacerdote le fa compiere. Semplice. Privo di violenza o cattiveria.
Il sangue del giovane le schizza su volto, mischiandosi alle linee blu, in un disegno tribale e grottesco che risplende sulla pelle della donna, sulla sua bocca, tanto che sente il sapore con la punta della lingua. É costretta a deglutire un fiotto di acido e dolore.
“É un buon segno” dice il sacerdote indicando il sangue che bagna il volto ed il collo della donna.
Linnea era ricoperta di sangue, Linnea era una Ra’.
“Abbiamo una nuova Ra’” dice il Sacerdote, mostrando al popolo Linnea in quello spettacolo di fascino e scempio: “ribattezzata Ra’Shaiva, la portatrice di guerra, del riscatto, ultima dei Ra’Khajiti”.
La vestale riprende la ciotola colma di sangue, mentre altre due si occupano del corpo del ragazzo “lo portano in trionfo ” spiega il sacerdote.
Macabro trionfo, pensa la regina che ancora stringe l’elsa della spada con la mano tremante.
Solleva lo sguardo, mentre il sangue viene fatto schizzare sui presenti, su tutti, nessuno escluso, anche sui suoi riluttanti compagni.
“Non credevo che l’avresti fatto” Era Ra’Zan’Kir a parlare, con lui i suoi pari che fissavano Linnea con occhi nuovi.
“Ra’Shaiva ora sei come noi, porti la morte ai tuoi stessi fratelli conducendoli in battaglia” era la volta di Ra’Navani, uno strano modo di darle il benvenuto, Ra’Shaiva era il nuovo nome con cui l’avrebbero conosciuta e con cui le avrebbero sempre ricordato il sacrificio fatto.
“La nostra vita è tua, per nostra libera scelta, fino a quando perseguirai lo scopo comune o fino a che lo consentirà il nostro onore.” L’ultimo a parlare fu Ra’Motaba e se vi fosse mai stato un Khajita somigliante a Guren per semplicità di pensiero quello era lui.
“Di solito i Ra’ agiscono alla pari, ma questi sono tempi eccezionali e pertanto per noi sarai Ri’Shaiva” concluse Ra’Navani con questo riconoscimento i Tre portarono la zampa sul cuore e chinarono il capo al loro capo branco.
A suggellare il patto i Khajiti bevvero dal piatto sacrificale un piccolo sorso di sangue ancora caldo, poi lo passarono all’Elfa.

Dopo che Linnea fece lo stesso si voltò verso il primo dei Khajiti dicendo: “datemi della Skooma”

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