L’ultimo Sigillo, Witchcraft, dicembre I anno del Dominio dei Draghi (XIII anno di Dominio di Linnea ), dalla trama Dominio dei Draghi,
Autore : Orion Il Nero
Selezionava gli allievi e li conduceva attraverso percorsi che non avrebbero mai imboccato da soli, ne esaltava le abilità innate tenendosi per se le loro paure. Era astuto. Sapeva come portarli al guinzaglio, lasciando che il giogo permettesse loro di respirare e di tornare a cercare il nutrimento di cui abbisognavano dalle sue mani. Mani generose e possessive, nessuno poteva dirsi libero una volta toccato dal Sacro culto del Dio del Crepuscolo.L’uomo ne era certo, Akhetis stava sorridendo in quel preciso momento.
Probabilmente il Teocrate non aveva alcun interesse nell’opera dei Draghi. Lui e il Dio erano oltre. Però era pur sempre il Maestro delle arti proibite per eccellenza e ogni Maestro prova un misto d’orgoglio e giustificato timore nel contemplare i progressi dei propri studenti.
Nella Torre di Verdiana si era aperta una porta sul mondo infero. Era un faro nella notte. La luce che brucia le ali delle falene. Chiunque all’interno della Valle che avesse un benché minimo legame con il tessuto magico che unisce la materia si sarebbe reso conto di quanto accaduto.
E in fin dei conti era quello che l’uomo desiderava. Nessun diversivo o inganno, mera teatralità.
I Draghi annusarono l’odore del Caos.Un varco come quello era l’applicazione pratica di teorie che gli sarebbero valse la pena capitale. Chissà cosa avrebbero detto di lui Lord Parsifal e Lyala.
Ribolliva la mente dell’uomo e in parte era colpa di quel luogo in cui si era lasciato sprofondare senza una precisa idea di come tornare indietro.
Poteva decidere di languire in quel luogo senza tempo in eterno, qualsiasi cosa che fosse uscita dalla porta socchiusa dell’inferno sarebbe stato il male minore rispetto a quanto sapeva che avrebbe fatto.
Perché non gli piaceva mentirsi.
Poteva scegliere di operare la stessa magia di Verdiana e insieme avrebbero sigillato per sempre l’ultima possibilità dei Draghi di conquistare la Valle. Immolarsi, però, non faceva parte del proprio credo.
L’aveva fatto una volta, al tempo di Aluna, si stava lasciando consumare dalla magia, ma la morte non l’aveva voluto. Adesso non avrebbe potuto rifiutarlo.
Avvertiva la stanchezza e si sorprese. Era molto, molto tempo che non si portava tanto vicino al limite.
E in tutto questo Verdiana lo fissava. Avvertiva dentro di lei la disperazione.
Lui la toccava. Lei era pietra.
Sarebbero potuti restare lì per sempre.
Quello non era un posto adatto ai vivi.
Sarebbero rimasti insieme, indivisibili, a congiungere due estremi così lontani da risultare identici.
Le immagini di vite che non erano la sua iniziarono a bagnargli la mente.
Da quanto tempo era già li?
Perdersi in quel luogo era la normalità. Tornarne integri era un altro affare.
Un senso di impellenza si impossessò dell’uomo, angosciante come il ticchettio di un orologio rotto.
Per quanto ancora si sarebbe potuto muovere sul filo del rasoio. In equilibrio, senza cadere nella follia e negli inganni di un luogo apatico e asciutto.
Sarebbero potuti restare insieme per sempre.
L’uomo posò le mani su quelle della maga, doveva solo separarle e avrebbe rotto il sigillo. Aperto la via ai Draghi.
Oppure restar lì con lei.
In quel luogo erano il diversivo dei camminatori penitenti.
Esseri senza aspetto. Apparivano all’uomo come ciò che lui identificava familiare, erano delle sirene infere, pronte a circuirlo e trattenerlo lì, affamati di vita, desiderosi di provare ancora calore e dolore, fame, amore tutto ciò che lui fino a quel momento aveva dato per scontato.
Frugavano nei ricordi e risvegliavano sentimenti sopiti, giocavano e invadevano la sua mente.
“Potremmo restare qui per sempre” era Verdiana a parlare.
Non quella supina e rigida, ma uno dei camminatori che ne aveva assunto le sembianze.
Doveva sbrigarsi, doveva scuotersi. Si stava perdendo. Una lacrima aveva appena fatto in tempo a solcargli la guancia che gli venne strappata voracemente da quegli esseri privi di tutto.
L’uomo si chinò sull’elfa. Fronte su fronte e nuovamente il dolore intenso della magia di sacrificio di Verdiana lo prese. I camminatori si incollarono a lui come sanguisughe voraci.
Più si premeva sul corpo della maga e più dolore provava, dolore che accoglieva con gioia perché gli puliva la mente dagli inganni del mondo dell’oblio.
Dolore che non avrebbe mai saziato i camminatori, presto sarebbero divenuti troppi anche per quello stratagemma, ma avrebbe portato a termine il proprio compito.
Con un ultimo sforzo piegò le dita di Verdiana, separandole una a una, spezzando l’incanto.
Era fatta.
Il Caos turbinava su di loro come uno stormo di avvoltoi.
Quando il sigillo fu rimosso il mondo intero vibrò, persino i camminatori penitenti si allontanarono da lui, avevano di meglio: il mondo reale.
Aveva corrotto le correnti terziarie.
Unito i ponti liminari.
Era la magia della carne, la sfera della terra infera.
Il potere evocato era considerato al pari di una malattia dai maghi valligiani.
Aprire una falla che univa le dimensioni del piano terreno con il mondo delle ombre era un abominio e in parte un suicidio.
Richiamare abbastanza energia di risonanza per sovrapporre i flussi delle altre correnti magiche richiedeva un sacrificio unico, qualcosa dell’evocatore doveva essere sacrificato sull’altare dei guardiani del mondo delle ombre.
Era il dazio e il catalizzatore di una magia tanto potente.
Il cristallo dell’anima che l’uomo aveva adoperato era stato infuso con parte della propria essenza vitale.
In altre parole aveva ucciso parte di se.
Se solo avesse avuto tempo avrebbe usato altro, materia prima di alta qualità, l’anima di un elfo alto o quella di un altro mago. Purtroppo quel tempo non gli era stato concesso e rischiare il fallimento non era una possibilità.
Il ritorno dal piano infero era un’altra questione.
Se le teorie dei portali di evocazione tra i piani di esistenza erano conosciute e sperimentate il passaggio attraverso queste era stato provato solo per anime o demoni che venivano riversati in un contenitore, consenziente o meno, ma quello che aveva fatto lui era l’esatto opposto.
Ammirevole, si era detto, incosciente di certo, poiché la via del ritorno l’aveva solo ipotizzata.
Se tutto fosse andato nel verso corretto.
Se solo il Teocrate gli avesse rivelato qualche segreto in più.
L’uomo sperava che il cristallo dell’anima fungesse da faro, da arpione nel piano terreno a cui aggrapparsi per poter tornare indietro, ma ora che la stanchezza lo pervadeva ed i camminatori penitenti lo prosciugavano del desiderio di tornare capì quanto era nei pasticci.
Avrebbe operato uno scambio.
Avrebbe definitivamente sacrificato il prezioso contenuto del cristallo per riportare Verdiana e se stesso dal lato giusto dei mondi.
Elaborare un piano migliore era un lusso che non poteva permettersi.
Strinse a se Verdiana scoprendo che non gli provocava più alcun dolore.
Maneggiò ancora una volta i fili della magia.
Richiamò il cristallo dell’anima a se e lo usò come il trabocco usa il contrappeso per scagliare il proprio proiettile.
Più tirava a se il cristallo e più veniva riportato al mondo reale, uno scambio, un equilibrio.
Il tessuto della magia era stato piegato e stirato, ora, come un contabile azzera l’abaco, lui stava azzerando la clessidra da cui aveva preso in prestito la sabbia.
Stava cancellando l’infezione della terra infera, ma ancora non sapeva cosa gli sarebbe costato.
Chi non osa non vive, chi osa troppo non vive e lui aveva fatto entrambe le cose al contempo.
Uno dei camminatori penitenti che non aveva fatto in tempo a fuggire attraverso il varco si insinuò in lui.
Si getto nel cristallo nutrendosi dell’anima dell’uomo in essa contenuta e attraversando la porta per il buco della serratura.
L’uomo avverti una fitta di dolore atroce. Sapeva che sarebbe successo, non si perde parte della propria anima tutti i giorni e neanche lui sapeva per certo quale sarebbe stato il prezzo finale da pagare.
Il mondo attorno a lui aveva nuovamente dei connotati familiari.
La pietra della stanza da cui era partito sapeva di umido e muffito.
Il suono della città della magia giungeva ovattato.
Il calore del corpo di Verdiana a cui era ancora stretto lo rassicurava.
Erano tornati, si, ma a che prezzo?
Lo aveva percepito chiaramente, parte di se era rimasta oltre il baratro.
L’uomo chiuse gli occhi, si perse a lungo nel formicolio che provava lungo tutto il corpo.
Il corpo perfetto che nutriva della magia di cui era fruitore era rovinato, prosciugato.
Osservò le proprie mani secche e avvizzite.
Quando era stata l’ultima volta che aveva contato i propri anni? Ora che ci pensava si rese conto di non ricordare neanche più la data esatta della propria nascita. Che pensiero folle, un pensiero che lo fece sorridere.
Non vi era uno specchio e Verdiana era ancora priva di sensi, nessuno lo avrebbe visto in quello stato.
Non aveva molto a cui attingere e la magia dell’aria interna di cui Verdiana era maestra non l’avrebbe aiutato di certo, troppo lontana dalla propria sfera di affinità.
Con somma pazienza chiuse gli occhi e cercò un profondo contatto con la roccia di quella stanza. Poteva ancora avvertire il potere della propria opera, una eco di cui andare orgogliosi.
Scese più a fondo, il soffio vitale delle piante che albergavano tra le pietre, i piccoli insetti e i roditori di quell’ala del palazzo divennero il nutrimento che poco alla volta lo rigenerava.
Per ogni essere che avvizziva lui riacquistava energie. Il sacco vuoto che era si stava rimpolpando.
Tempo, era solo questione di tempo e per lui il tempo non era mai stato un problema.
Alla fine riuscì a scrollarsi di dosso l’elfa.
Prese fiato e in quello stesso momento capi cosa mancava.
Il corpo dell’uomo non era ancora integro, ma una parte di se non lo sarebbe mai più stata.
Quel volto perfetto e proprio vanto. I capelli bianchi non avrebbero più incorniciato la sua bellezza diafana. Gli occhi dell’uomo non sarebbero più stati due pozze d’acqua ghiacciata.
Lo avvertiva dentro di se e se ancora non poteva vedersi sentiva che al posto dell’occhio sinistro e parte dello zigomo vi era il vuoto gelido di un mondo che non era il proprio.
Il camminatore che si era intrufolato nel cristallo non aveva fatto in tempo ne a passare dall’altra parte e neanche a tornare indietro.
A malapena era riuscito a sostituirsi al frammento di anima dell’uomo che ora lo sentiva sussurrare nel silenzio.
Era una voragine buia e costellata di puntini luminosi, un cielo stellato colmo di costellazioni e galassie in cui ogni piccolo lume era un’anima in viaggio.
“Non sarai mai più solo” la voce lo colse di sorpresa, ma chi aveva parlato?
“Tivano-re, sis tutetis, codevoris sino-re” le parole nella lingua dei morti si presero gioco di lui che la conosceva fin troppo bene.
Una risata isterica e irrefrenabile travolse le membra di un vecchio che stava ringiovanendo a vista d’occhio. Si, mai scelta di parole fu più azzeccata. Occhio, uno solo, perché l’altro non era più suo e da quel momento l’avrebbe dannato.
Era l’occhio del destino.
Quando guardò Verdiana lo comprese. La vide morire, vide il come, ma non il quando e nemmeno il luogo.
Che atroce scherzo per uno come lui. Abituato al controllo e a ritenere che nulla fosse predestinato.
L’occhio del destino, ne aveva sentito parlare e sapeva che chi lo possedeva impazziva.
Sapeva che avrebbe visto la fine chiunque fosse stato tanto folle da ricambiare quell’occhiata e cosa più atroce sapeva che l’unica fine che non avrebbe mai potuto vedere era la propria.
Il camminatore rideva.
Non era più l’unico penitente.