Ducato di Ellenroth

Il Ducato di Ellenroth è nella sua maggioranza formato dal deserto di Nadara el Mandar. Nadara che nella lingua indigena significa “Panorama da Guardare” e rappresenta il deserto più esteso della Valle dei Sogni. La diversità di condizioni climatiche ha lasciato delle importanti impronte sul suolo di questa regione.

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Le Città ed il Deserto

Città di Ellenroth, l’amata

Città di Ellenroth, la capitale del ducato. Dalla valle sottostante sale il vento caldo e secco che dopo aver attraversato il deserto si riversa alle pietre delle mura che circonda la Grande Città. Tra le sue vie illuminate dalla luna e tagliate dalle lunghe ombre dei minareti si possono osservare vasti piazzali su cui si affacciavano portici maestosi. Al centro della città la successione degli archi che avvolgono come braccia protettive la Piazza Centrale scandisce fra i suoi intercolumnii lo spazio notturno e lunare e inquadra il cortile interno al centro del quale si erge Diarmuid Hall, il Palazzo Ducale, fonte del potere. Il biancore dei suoi marmi e il mormorio sommesso delle fontanelle entrano come una musica soave nell’animo e l’armonia suprema di quell’architettura risalta nella luce della luna come un canto sublime nel silenzio. Nella città di Ellenroth è raccolto sia il potere politico che quello religioso del ducato. Queste due forze, in stretta collaborazione tra di loro, si identificano ai due edifici più imponenti della città: Diarmuid Hall e Dar al Hikma.

Diarmuid Hall è l’abitazione atavica, imponente e maestosa, dei duchi di Ellenroth. Il castello si staglia come una fortezza in cima a una ripida collina, dietro cancellate di ferro e solide mura di pietra. Ha l’aspetto di un gigantesco drago in lontananza, con parapetti dentellati, camminamenti dentellati e torri esagonali. Raggiunsero l’ingresso del castello.  Dar al Hikma, casa della saggezza, ma anche conosciuto come Daral ulum, casa delle scienze, è la sede religiosa del ducato. ‘E un edificio rotondo di marmo bianco di Sybilland che risplende nel sole cocente di Ellenroth.  Ellenroth Tor, piccolo porticello a pochi chilometri verso nord dalla città di Ellenroth, si usa come scalo merci per i rifornimenti via mare ma anche come residenza estiva delle famiglie più in vista del Ducato.

Evanstone, la Pietra nel Deserto

Evanstone, il secondo porto più grande, dopo il Molo dei Mercanti, della Valle dei Sogni. Il cielo è di un blu cobalto al centro della volta e una grande luna candida si leva dalla parte opposta al sole che tramonta librandosi sulla cresta delle montagne deserte e silenziose, quasi rotolando sui loro profondi scabri, mentre verso occidente sta affondando nell’oceano e la sua luce brillante, divorata dalla notte, trasloca a poco

a poco dal rame all’argento disegnando i tetti di Evanstone. Il passaggio si apre improvvisamente davanti agli viandanti che arrivano seguendo la Via delle Carovane. Là sotto l’oceano si estende a perdita d’occhio con un movimento incessante di onde incappucciate di schiuma che si rompono sulla costa. Il sentiero comincia a scendere, snodandosi tra le rocce, reso umido e scivoloso dalla foschia e dagli spruzzi marini. Sotto i loro passi la roccia appare instabile come se tutto fosse sul punto di crollare.

A una svolta si trovano davanti a una discesa, un stretto passaggio che più avanti si trasforma in un ampia strada e dirigendosi verso le scogliere, percorrono in leggera salita un bastione roccioso. Da quel punto il sentiero, seguendo un pendio, discende in una linnea verdeggiante che alla destra si perde all’orizzonte lasciando a sinistra la montagna che scende fino al mare. Il sentiero porta fino a uno stretto istmo che si tuffa nell’oceano. Collegata all’istmo c’è una vasta penisola dalle coste frastagliate e scoscese contro le quali l’oceano si infrange senza sosta. Sul punto più alto della penisola si ergono gli edifici bassi di Evanstone.

Merville du Midì, la “Perla di Mezzogiorno” 

Merville dù Midì è l’unica città nel deserto. Il viandante che arriva seguendo la Via delle Carovane entrando a Merville du Midì deve lasciare la sua cavalcatura, su una delle numerose scuderie, alla base della collina  su cui si erge la fortezza del presidio. La collina argillosa è segnata dall’alto in basso, da profonde solcature e sulla sommità la cinta delle mura e le torri sono scolpite dalla luce del sole ogni ora del giorno. Dopo aver contemplato questo spettacolo superbo si raggiunse la scalinata che conduce al portale d’ingresso, rivolto a sud ovest, e si sale lentamente insieme a una mare di cammelli, di capre e di pecore, di gente che spinge davanti a sé asini someggiati o trascina carretti carichi di mercanzie di ogni sorta

. Aggirandosi per le vie strette e tortuose della città vecchia in un frastuono di richiami, nel fitto brusio di mille voci, nel polverio sollevato dal calpestio di innumerevoli piedi, dalle zampe di muli e asini carichi di mercanzie si può trovare ad ogni angolo davanti a un nuovo mercato, con decine e decine di botteghe, alcune delle quali talmente minuscole da sembrare delle scatole, e tutte traboccanti di merci. Nell’aria aleggiano odori talmente forti da stordire; si mescolano in quell’orgia olfattiva il penetrante sentore delle spezie, il profumo d’incenso e delle resine di cedro e di pino della vicina Sybiland, il tanfo delle concerie. Famosi sono sia il suo mercato delle spezie, formato da minuscoli e anonimi empori dove stanno accovacciati fra sacchi e ciotole multicolori vecchi della lunga barba bianca, sia il mercato dei ramai, collocato all’esterno della città lungo una galleria che risuona del rumore assordante di decine e decine di martelli che battono ritmicamente sulle lamine lucenti. Una città piena di vita, voci, odori e profumi ma più di tutto di gente di ogni tipo che vende e compra; solo di notte la vita sembra fermarsi e non c’è nessuno per le vie a parte i mendicanti coricati sui lati della strada, i corpi scheletrici avvolti in luridi stracci, immersi nel sonno o forse già nelle braccia della morte. Dalla città di Merville dù Midì partono ogni giorno lunghe carovane che si snodano come serpenti e scendendo dalle colline si inoltrano nel deserto seguendo con andamento sinuoso le forme del suolo. Davanti i guerrieri a cavallo, le guardie dietro i cammelli, cariche di otri pieni di mercanzie, legati con funi robusti, che si muovano con passo lento, ondeggiante riempiendo l’aria dei loro grugniti lamentosi e alla fine chiudono la fila altre guardie a cavallo.

Il Dar, il quartiere più malfamato della città si trova accanto ai bazar della città vecchia in modo che gli ignari viaggiatori senza accorgersene ci si inoltrano. Un vicinato di catapecchie, casupole ed edifici abbandonati e cadenti che danno riparo ad alcun migliaia di sfollati e disperati.  Ma anche Dar, la locanda, l’osteria dove ogni tipo di incontro è possibile, dove affari illeciti si discutono nei suoi tavoli e dove è facile che non ci si esce vivi. Dalla Città di Merville dù Midì parte la Via delle Carovane che attraversando il deserto di Nadara, al Pozzo, si divide e svolta a sud verso Evanstone e a nord verso la Città di Ellenroth.

Nadara el Mandar, il Deserto…. immenso, echeggiante, divino.  

Nadara el Mandar, “panorama da guardare” nella lingua dei Rajin, non è altro che il nome che i loro antenati diedero al deserto inospitale, come per scongiurare la sua crudeltà verso la vita come per ammansire il suo spirito distruttivo. Il suo nome non è solo un tentativo di addomesticarlo è piuttosto una dichiarazione della sua bellezza. Un territorio completamente piatto e nudo, una distesa giallastra e compatta sparsa qua e là di radi cespugli rinsecchiti. La notte, con la luna che sorge enorme e rossa sulle colline gessose, è altrettanto silenziosa che il giorno e quell’enorme spazio piatto sembra completamente vuoto se non fosse per il lamento dello sciacallo che si leva di tanto in tanto ora più vicino ora più lontano. Il deserto ha occhi e orecchi dovunque anche quanto appare completamente vuoto. Il deserto non ha confini. Distese interminabili di sabbia finissima, rossastra con jabal (colline) d’arenaria che s’innalzano improvvise dal fondo valle. Lingue di terra bruciata e distese di sabbia ovunque si avventura l’incauto viaggiatore. I fianchi delle colline, solcati da una serie di vallecole parallele che confluiscono  nei wadì (corso d’acqua) completamente secchi, sono contornati e ombreggiati qua e là da una bassa vegetazione di piante spinose e da bassi cespugli.

Il luogo è immerso nel silenzio più profondo, non si vede una sola creatura muoversi per quanto lo sguardo può spaziare sulla pietraia infinita, soltanto qualche aquila solitaria rotea nel cielo in ampi cerchi lasciandosi portare dal vento. Il sole nel tramonto rende amabile questo paesaggio di calanchi gessosi e di pietre nere ammantandolo di una luce rosata e facendo brillare come monete d’argento i frutti rinsecchiti delle lunarie. Il fascino di quelle luci violate, di quei colori accesi, di quella purezza estrema dell’aria e della terra. Quel paesaggio, che dapprima appare come lo scheletro di una natura condannata, rivela a ogni passo una sua vita nascosta  e segreta, fatta di tenui profumi che il vento libero porta da terre e da mari lontani , di bagliori e di ombre evanescenti, di presenza nascoste che si possono solo intuire nei silenzi irreali dell’alba, nei fuochi del tramonto.

Oasi Wadì el Kebab

La Via delle Carovane porta nel cuore del deserto e passa vicino alla collina che domina l’oasi di Wadì el Kebab, un’oasi di incanto, una cittadella agguerrita che si staglia contro un cielo che s’incupisce man mano che il sole scende verso la distesa delle sabbie.  La visione della valle riparata e verdeggiante, una distesa di campi fertili e di palmi rigogliosi, di melograni, di fichi e di viti, un intreccio di canali intorno a una fonte blu come in cielo e limpida come il cristallo, e su una rupe di granito la mole di un maniero colossale il Palazzo di Wadì el Kebab.

Le cime delle palme ondeggiano nel vento e tutto attorno le mura del castello s’accendono della luce solare, come del riverbero di un incendio. Il sole si specchia nei canali che suddividono il terreno in tanti riquadri verdeggianti, lembi di smeraldo incastonati tra l’argento delle acque e l’oro delle sabbie. Piante costellano gli orti e dai giardini salgono voli di passeri fino agli spalti calcinati dal sole di infinite stagioni e più in alto si dispiega in ampi cerchi il volo solenne del falco. Attraverso prati verdi su cui pascolano greggi di pecore e cavalle dalle lunghe criniere argentee con i loro puledri, sventola nell’aria il grande stendardo purpureo sull’azzurro dei lunghi mantelli sulla cima di ricchi tendaggi. Sotto le loro tende ci sono belle donne. E c’è il vento dell’est che porta il profumo dei fiori dell’altopiano e c’è il belato degli agnelli e delle loro madri.

In questo posto benedetto dagli dei vivono i Rajin, popolo beduino, nomade, fiero e orgoglioso. Loro casa è il deserto e lo percorrono cavalcando i gloriosi Raithen, i cavalli della criniera argentea, pegasi fatati pronti a spiccare il volo, in una nube di polvere che la luce lunare imbianca contro lo sfondo nero delle rocce e della pianura stepposa.  Sono loro gli antichi abitanti di questa terra e gli eredi delle sue tradizioni. Ed è tradizione dei Rajin mescolare una manciata di chicchi di caffè assieme ai chiodi di garofano e a un po’ di cannella e riempire la tenda di un profumo penetrante, poi pestare il caffè nel mortaio con un ritmo vario e tamburellante, come una musica, accompagnando quel bizzarro scampanio ligneo con il moto della testa. Sai che cos’è questo ritmo, viaggiatore? E’ un richiamo. Quando il Rajin pesta il caffè nel suo mortaio fa questo rumore che si spande a grande distanza e chiunque passi, qualunque pellegrino si aggiri nella solitudine e nell’immensità del deserto, sa che una tazza di caffè e una parola ospitale lo attendono sotto la tenda.

 Il Pozzo della salvezza

Il deserto è un territorio che non perdona, non si può andare dove si vuole ma solo dove si può e cioè dove ci sono i pozzi. La Via delle Carovane percorre il deserto di Nadara nella sua parte centrale. Partendo da Merville dù Midì e proseguendo verso sud dopo due giorni verso l’imbrunire si vede in lontananza Wadì el Kebab, l’oasi dei Rajin.

Ci vuole un altro giorno e mezzo per arrivare al Pozzo, l’unica fonte d’acqua di questa parte del deserto. Le carovane fanno sosta qui per dissetare i loro animali da somma e attingere dal pozzo riempiendo otri e grandi vasi di terracotta che vengono nuovamente caricati sui basti dei cammelli e assicurati dalle funi per attraversare il deserto e portare la mercanzia fino al porto di Evanstone o più nord ancora fino alla Città di Ellenroth. La Via delle Carovane a questo punto si divide a prosegue verso est dirigendosi alla Città di Ellenroth (ci vogliono due giorni e mezzo per poter uscire dal deserto) o ancora più a sud verso Evanstone (a un giorno di distanza). Proprio di fronte al Pozzo si possono distinguere due montagne dalle cime fumose, due vulcani .  Mashreq, l’oriente, punto dove il Sole sorge Maghreb, l’occidente, punto dove il Sole tramonta Tra Mashreq e Maghreb si estende la Sabbia degli Spettri, la parte più arida ed inospitale di Nadara.

La Politica

L’operato del Duca e la situazione geopolitica della regione Diarmuid Hall

Markalek di Ellenroth e Lucius dei Passeri appartengono alle poche famiglie di nobiltà della Valle dei Sogni che per secoli detengono il potere. I due crebbero insieme, anche se destini diversi li attendevano. Lucius come secondogenito non aveva nessun diritto al titolo e quindi doveva riuscire a destreggiarsi solo con la piccola rendita passatoli dal padre. Dotato però di una intelligenza non comune e con una prontezza di spirito rara venne considerato da Markalek di Ellenroth e da Wulfrick di Isildale (futuro padre di Derek detto il Magnus) degno della loro considerazione e amicizia. I 3 coltivarono sogni di gloria, conquistarono valore nei diversi tornei combattuti e sebbene Lucius ben presto si dedicò alla chiesa non smisero mai di ricercare la gloria per i loro casati, per il loro antico lignaggio e per il loro paese. Anche quanto, prima Wulfrick e in seguito Markalek, vennero chiamati a condurre il proprio ducato, occupando cosi il posto che li spettava per diritto di nascita, non smisero di considerarsi amici e di coltivare i loro propositi. Fieri della loro discendenza e sicuri del loro divino diritto di plasmare il destino si dedicarono con entusiasmo ad attuire i loro piani di una politica espansionistica e dell’unificazione del mondo, allora conosciuto, sotto i colori della Valle dei Sogni e in nome di una, sola ed unica Divinità. Erano loro i detentori del potere. Nel Ducato di Ellenroth, il XVI duca Markalek, collocò a capo della Chiesa locale, fedele a San Bertram, il suo amico Lucius e insieme presero a dar vita ai loro piani. Per prima cosa si occuparono della “civilizzazione” dello stesso ducato. Abitava nel deserto di Nadara un popolo conosciuto con il nome dei Rajin. Erano questi “atei, barbari, e nel miglior dei casi simili ad animali, degni di essere estinti se non riconoscevano la sovranità di San Bertram nel nome del Ducato di Ellenroth e della Valle dei Sogni.” come usava dire Lucius dal pulpito del suo tempio. Cosi prese inizio una specie di crociata per la loro conversione e la loro assimilazione in senno ai grandi valori che solo loro, gli esponenti della più alta nobiltà, possedevano. Furono anni duri quelli che attendevano il popolo nomade ma rinchiusi nella loro osai di Wadì el Kebab resistettero e ben presto Markalek ebbe altre cose di cui occuparsi. Volle egli stesso con l’ausilio di Lucius e il forte appoggio della chiesa riformare la società di Ellenroth, condannata perché corrotta dalla tolleranza verso gli inetti e dalla promiscuità tra le diversi classi sociali, e cosi la comunità  venne ancora di più divisa tra quelli che per diritto di nascita erano considerati al di sopra di tutto perché incapaci di azioni villi e quelli che nascendo nella pochezza di cultura non avrebbero e non potevano elevarsi al di sopra delle loro scarse possibilità, non perché incapaci ma per un difetto della loro stessa persona. “Le cose stanno proprio cosi e non si possono cambiare, perché San Bertram non avrebbe mai approvato che un umile servitore sedesse nella sua tavola” proclamava abitualmente Lucius, guida spirituale del Ducato di Ellenroth.  Erano 30 anni di governo incontrastato da parte di Markalek quanto Sua Maestà Linnea Selede Isilva salì sul trono portando una ventata d’aria pura e di sfrontatezza nella sua gestione del Regno. La nuova Regina non piacque al Duca, e ancora meno le sue decisioni, ma oramai era vecchio e il suo potere anche se ben radicato nel Ducato veniva meno alle altri parti della valle. Durante gli anni di Regno di Linnea Ellenroth è entrato nelle rotte commerciali marittime del Regno intero. Questo ha portato nuova linfa vitale alla Regine, in particolar modo alle città marittime di Ellenroth ed Evanstone. Discorso diverso è Merville du Midì, la città, protetta dal deserto, ha mantenuto una mentalità più chiusa. Durante il Dominio dei Draghi il Ducato è stato poco considerato dai cultisti, che si sono limitati ad occupare le città con poco entusiasmo, essendo questa regione troppo lontana dal centro della battaglia e del potere draconico. Proprio per questo motivo Merville du Midì è stata la città dove è rinata la resistenza Selede e da dove è ripartita la conquista della Valle dei Sogni.

I Kahjiti

I khajiiti sono creature feline dall’aspetto umanoide tipiche della regione dell’Ellenroth. La loro città si trova nei meandri dei Pozzi della Memoria, al di sotto di Merville du Midì. Qui è presente la più ricca e folta comunità felina. Queste creature sono ben note per la loro acutezza e agilità, caratteristiche che li rendono ladri superbi e abili guerrieri e sono poco portati verso le arti magiche, anche se questo non vuol dire che non possano svilupparne, ma per entrare in possesso di tali doti hanno bisogno di stremanti allenamenti. Quando parlano tendono a riferire a loro stessi in terza persona. Sono anche abili fabbricatori di Skooma, un liquore particolarmente alcolico.

Fisiologicamente i Khajiiti differiscono notevolmente dalle razze di elfi e umani, non solo nella struttura scheletrica (possiedono una coda, hanno le dita d’appoggio a falange, camminano in punta di piedi e hanno una postura particolare) e nella struttura della pelle (un vero e proprio “pelo” che copre i loro corpi), ma anche nella digestione e nel metabolismo.

Gli abiti tipici dei Khajiiti comprendono un ampio scialle di stoffa dai colori vivaci utile contro i raggi solari. Questo indumento è saldamente fissato lungo il lato destro. La maggior parte dei Khajiit adora portare gioielli, bigiotteria e tatuaggi: questi ultimi non hanno un mero scopo estetico, ma indicano anche lo stato sociale o il dio a cui si affida il Khajiit. Molti Khajiiti preferiscono usare i loro artigli in battaglia piuttosto che le armi, inoltre essi praticano numerose forme di arti marziali . Hanno imparato l’uso della sciabola, della scimitarra, del pugnale e dell’arco: è per questo che i Khajiit hanno due nomi che rappresentano il loro stato sociale e la maestria con le armi. In battaglia usano spesso armature leggere con piastre di armature pesanti.

 

Dalla trama il Dominio dei Draghi
Dominio dei Draghi o Monarchia dei Seledi? Qualunque sia la risposta entrambi gli schieramenti attingono alla conoscenza per asservire la Valle ai propri scopi.
Giustizia e ordine oppure caos e violenza? Semplici attitudini, caratteristiche intrinseche all’animo degli esseri viventi.
Che si appartenga ad una fazione o all’altra c’era e restano i Khajiti.
Quando i primi saggi inviati dai Seledi a catalogare esseri vegetali e animali in domini, regni, classi, ordini, famiglie, generi e specie -il tutto per la felicità di annoiati studenti- non avrebbero mai immaginato di imbattersi in loro: gatti troppo cresciuti, dalla propria anatomia e fisiologia.
Affascinati, questi uomini di scienza e poca coscienza, operarono e tagliarono scrivendo numerosi tomi sulla specie nota come Felis Silvestris Valle-Somnia. Secoli or’ sono il famoso naturalista Giubas Scobas II giunse a sostenere che ogni buona famiglia avrebbe dovuto tenere in casa almeno uno di questi felini, per le loro abilità di cacciatori e custodi di casa.
Sono passati parecchi secoli ormai, e nonostante le varie edizioni della N.H. ut Valle-Somnia dell’accademia Seleide abbiamo confutato e ribaltato le vecchie teorie resta il pregiudizio e la diffidenza per un popolo autoctono, fiero e amante della libertà tanto da esser considerato ancora in molte parti della Valle dei Sogni un genere parassitario della buona società valligiana.Tutte queste nozioni probabilmente non erano nella testa di J’zargo e altrettanto probabilmente non vi sarebbero mai entrate. Il micione dagli occhi arancioni era troppo pigro e amante della Skooma per permettersi il lusso di aprire un libro senza neanche un disegno a risparmiargli la lettura di qualche pagina.
Oggi però avrebbe dovuto scrollarsi di dosso quella svogliatezza apparente.
Oggi il Khajita avrebbe svoltato nuovamente pagina nella propria vita ed era tanto esaltato quanto svogliato.
Avete mai provato a far spostare un gatto dal angolo preferito? Avete mai sfidato la resistenza passiva che a peso morto sanno operare facendo cedere i più burberi padroncini alle loro fusa?
Eccolo J’zargo a sventolare la coda placidamente da un lato all’altro, come se il mondo attorno a se non stesse cambiando drasticamente.Uomini che piovevano dalla Torre come grandine, uomini che si fingevano cultisti, uomini dall’acre odore di magia, uomini… sempre uomini… J’zargo arriciò il naso infastidito, protendendo le orecchie indietro.
L’arrivo del Drago sembrò l’unico evento capace di smuoverlo dalla propria seduta a gambe incrociate.
Ne aveva visto solo l’ombra, poi avvertito l’odore pungente del bruciato che lo seguiva e infine le vibrisse che facevano sue le vibrazioni del terreno.
Al pari di quelle prodotte da Alesia.Il mondo attorno a lui si muoveva più velocemente di quanto avrebbe desiderato, il Barbaro non era ancora tornato giù da quella dannata Torre, il tempo per aspettarlo senza far nulla era però terminato.Ancora occhi nel buio dal taglio felino, questa volta erano altri Khajiti, i reietti e nostalgici della Compagnia di J’zargo. Vecchi veterani della Guerra Civile della Valle che non aspettavano altro che percepire quell’odore nervoso che emanava il loro capo. Un feromone che non si era più sentito dalla guerra, un richiamo forte quanto le campane di tutta Merville du Midì.
J’zargo non era il Dar’ Ab’noud Zahonihr, solo i Dar’ potevano permettersi di usare quel richiamo, ma il Dar’ era morto e da allora nessuno aveva più usato e sapeva che avrebbe dovuto pagar pegno per quella violazione, ma forse avrebbe usufruito di qualche attenuante circostanziale.Aveva aiutato Guren in quell’impresa fosse e ora sapeva che avrebbe aiutato quei tre disperati che erano riusciti a potar nei Pozzi tanti seguaci del culto dei Draghi quanti non avrebbero potuto affrontarne da soli.
Quell’essere dal potere del fuoco l’aveva impressionato, ma ora che scrutava meglio sembrava aver esaurito gli assi nella manica.
La ragazza con l’enorme arma legata alla schiena gli appariva già fiacca, ma era lei che emanava l’odore più forte.
Poi c’era l’altra, anche lei emanava un odore forte e deciso, ancora indecifrabile.
Che sciocchi però, gettarsi nei Pozzi della Memoria così… un gesto coraggioso se desideravano aiutare i loro amici nella Torre, o sciocco se erano solo sobillatori con qualche conto in sospeso con i Draghi.La prima freccia dalla punta in osso trafisse l’ultimo della fila dei soldati che inseguivano i fuggitivi in quei cunicoli, poi la seconda e la terza.
In rapida successione dalle ombre entravano e uscivano artigli, lame e frecce.
L’imboscata appariva pianificata da tempo, i Pozzi della Memoria prendono sempre e restituiscono raramente… se non cadaveri mangiati dai topi.
Nessuno sapeva che quei Khajiti fuggiaschi avevano eletto a propria dimora quel luogo e che in parte i Pozzi stessi dovevano la triste nomea alla loro presenza.
Per sopravvivere erano diventati parte di quel mondo e ne avevano fomentato la paura e il timore reverenziale.
Avevano difeso così la loro ultima roccaforte.
Avevano così costruito il loro nido, in attesa di poter uscire da quel bozzolo umido, sporco e maleodorante.

I passi degli inseguitori del Trio Sventurato divennero sempre meno numerosi e più indecisi.
Rapiti dalle ombre, da occhi dalle tinte gelide azzurre, verdi e gialle, presi da fantasmi inafferrabili. I cultisti potevano fendere l’aria in cui spariva il compagno, ma senza speranza accettavano di esser presi da quei fantasmi subito dopo.

Così, dopo lunghi minuti, calò il silenzio nel Pozzi della Memoria.
Gli unici suoni erano il respiro affannoso dei Tre fuggiaschi e il gocciolio perenne dell’acqua.
Uno alla volta i Khajiti uscirono dall’ombra.
Si aprirono per far passare quello che sembrava esser il loro capo.
La Compagnia contava di un numero indefinito di gatti arrabbiati e dalle unghie sporche di sangue.
“Il mio nome è J’zargo e posso portarvi dai vostri amici”
Il suono di quelle parole sapeva della sabbia del deserto, un arabesco delicato e che scivolava sulla lingua.


L’ultima città dei Khajiti non aveva in vero nome, non ne avevano mai sentito il bisogno, nomadi per natura quell’alcova sicura sotterranea era più una gabbia dorata che un vero punto di riferimento da segnare sulle mappe.
In parte scavata nella roccia e in parte aperta dal passaggio dell’acqua sotterranea era rimasta nascosta per anni, almeno fino a che un Khajita dalle idee rivoluzionare non decise di mettersi di traverso al regolare svolgimento degli eventi e del destino.

Poco più giù, prima della prima fila di gradinate, ecco comparire le ultime due statue votive. Immagini gemelle di Jode e Jone, la piccola e la grande Luna.

Quel poco di luce che filtrava dal mondo superiore permetteva di distinguere tra notte e giorno.Nulla impediva ai Khajiti di sonnecchiare anche in piena luce, ma quel giorno ci sarebbe stato un grande fermento.

Di tutti gli studiosi della Valle in pochi ebbero la fortuna di studiare la società Khajita, un po’ per la loro naturale diffidenza e ritrosia, un po’ perché essendo una delle razze bestiali -guai a dare ad un Khajita dell’umanoide- della Valle non avevano mai suscitato grande interesse nel mondo Accademico altolocato.
Eppure le il lettore avesse voglia e pazienza di cercare e scorrere il raro libro intitolato “Ahzirr Trajijazaeri” scritto da Codus Callonus troverebbe che le nozioni in esso riportato tornerebbero molto utili per approcciarsi ad un evento complesso quale un processo a degli stranieri.

L’Emerito Callonus ci dice che il Khajita non ha mai fatto proprio il concetto di formalità o quello dell’appropriatezza contestualizzata a formalismi ovvi per il più dei Valligiani.
Lo dimostra il fatto che piccoli gruppi di giovani felini, tutti vestiti a festa con ricchi turbanti e gonfi pantaloni di morbida seta del sud si trovino a ridere riversi sul fianco, drogati -ma un Khajita direbbe ebbri- di Skooma, quasi fossero lì per caso. Non curandosi dei processati al centro del Tempio e facendosi bellamente i fatti propri come solo un gatto saprebbe fare. Per fortuna della società Valligiane già Giubas Scobas II aveva evidenziato che i Khajiti. molto dediti all’igiene personale. avevano abbandonato l’usanza di lisciarsi il pelo a leccate e apprezzavano molto pettini e lime o non avrebbero mancato di operare anche disgustose abluzioni in pubblico.

Detto questo altri si improvvisavano giocolieri e acrobati, commerciavano gioielli palesemente rubati, litigavano soffiandosi a vicenda -ma senza mai venire a contatto- o apparecchiavano per un banchetto che si auguravano durasse tutta la giornata.

Una piccola menzione, sottolineata anche dall’Emerito Callonus, su cui molto si è dibattuto, è l’uso dell’Erba Felix. Così definita dai botanici, ma chiamata comunemente Edera del Deserto e

dai Khajiti conosciuta come Haman. Non si conosce il nome di chi scoprì tale pianta, se sia autoctona della Valle, o quando entrò in uno presso il Popolo dei Gatti, l’unica certezza è che mentre in altre zone Valligiane viene usata per insaporire insalate e arrosti in questa regione viene essiccata e mischiata all’erba pipa per il dolce sapore e l’inebriante effetto analgesico, miorilassante e ansiolitico: l’Emerito Callonus ne consiglia un uso moderato ai non Khajiti, gli effetti avversi potrebbero essere più che spiacevoli, molto imbarazzanti.

Atualmente capo della società Kahjista vi è “Dar’Fa’urabi Zahonihr, figlio di Dar’Ab’noud Zahonihr Eroe della Guerra Civile, figlio di Dar’Ak’nir Zahonihr Campione di Alkhos.”

Dalla Trama “Il Dominio dei Draghi”

L’odore di cuoio, spezie ed olii é così intenso da farle bruciare gola e occhi, ed è costretta a sbattere più volte per evitare che la vista si offuschi. Tutto si consuma attorno a lei così velocemente da renderle quasi impossibile reagire o muoversi. I corpi attorno a lei sono caldi ed umidi, li sente sbattere e premere contro il proprio corpo esile, quasi soffocarla. Saltano, cantano, urlano, si agitano .
Una sensazione di profondo disagio si impossessa di Linnea. Tutte quelle persone,tutti quei corpi, tutto quel contatto la turba, tanto e rendere il suo respiro affannato, le gote rosse. Le mani dei khajiti la spogliano, rivelando cicatrici che non vorrebbe mostrare. Non tanto quelle del corpo, perchè quelle sulla schiena sono diventate una rete argenta che scivola elegante lungo le sue vertebre, decorando il profilo delle sue vertebre come un tatuaggio incolore, ma quelle del suo animo. Anche quello é un regalo di lugh oghma. Solo sulla schiena, perché Akhetis non avrebbe apprezzato vederla troppo rovinata . Il disagio aumenta, la bocca si fa secca, il respiro veloce.
Per questo quando Gouren le mette sotto il naso la bottiglia piena di skooma ne beve un sorso. È un piccolo sorso, infondo, ma le esplode nella bocca e nel cervello come il respiro di un drago. Per un breve, brevissimo, istante le sembra quasi di soffocare. Poi, lentamente tutto sembra prendere senso . O forse perderlo del tutto.
È forse quello che non doveva bere?
Poco importa, in questo momento le allevia il patimento di essere toccata. Respira lentamente dalla bocca ancora infuocata, tanto bruciata che percepisce l’aria scivolare al suo interno così come sentirebbe l’acqua gelida di un ruscello sul suo corpo.
Il corpo viene stretto da una veste bianca, sopra la quale i khajiti iniziano a posizionare cuoio e ferro. Un corpetto decorato con un drago dalle fattezze feline viene stretto sul suo corpo e sulle sue cicatrici fino a farle male, togliendole il respiro. E il loro dio, Alkhos.
I capello vengono intrecciati con nastri colorati e perline. Ai polsi si ritrova bracciali da guerriero stretti sui polsi, così come orecchini vengono messi alle sue orecchie, anche dove prima non ci sarebbero stati. La skooma attutisce il fastidio, tanto che Linnea si ritrova anche a sorride,qualche volta, ma è sicuramente lo stupore a prevalere sul suo volto.

La società khajita si era evoluta per numerose ere priva dell’influenza umana, elfica o di qualsiasi altra razza reputata accademicamente superiore. Quello che stava accadendo a Linnea non sarebbe stato possibile ritrovarlo su alcun libro o trattato di sociologia dei popoli valligiani. L’Emerito Callonus, se fosse stato in vita, l’avrebbe ceduta volentieri per poter documentare quei momenti. Era la manifestazione più primitiva dell’essenza khajita. In preda al fermento religioso e tradizionale che precede la scesa in guerra di quello che un tempo era con le Turme di cui faceva parte Guren il popolo signore del deserto, si poteva assistere al rito di iniziazione di Khenarthi la Dea dei Venti.
Le donne i le cucciolate portavano le vesti, dietro di loro arrivavano gli anziani del popolo con le armi e le pitture. Erano simbolicamente l’inizio e la fine della guerra, che porta via la bellezza dei giovani e dei loro ideali, gettandoli in pasto al ferro e al fuoco, restituendo khajiti vecchi e scottati dalla durezza della vita. Per questa la guerra era affare di Khenarthi, perché era turbine e vortice, strappava la vita con le tempeste di sabbia e restituiva anni dopo ossa bianche e lucide, ancora ingioiellate è vestite di tutto punto.
Linnea restava circondata da splendide khajite, che danzavano perse nei fumi della Skooma e dell’hanam, code sinuose e orecchie pelose che facevano ribollire il sangue ai giovani. Non c’era nulla di più sensuale di una gatta tigrata con il muso bianco e il pelo dello stesso colore a correrle lungo il petto fino ai seni e se a questo, come per Ra’Navani si aggiungeva la folta peluria delle orecchie era fatta. Quella bellezza sarebbe stata cantata a lungo.
E di sfondo c’erano proprio loro i Tre Ra’ ad osservare.
Diversi l’uno dall’altro incarnavano tre doti khajite, Ra’Navani era l’agilità e la morte silenziosa, Ra’Motaba era la forza e irruenza giovanile, Ra’Zan’Kir era la tradizione e onore -nonostante il pizzetto inguardabile- osservavano Linnea affrontare lo stesso rituale che avevano subito loro.
L’unico che mancava era il Dar’.
Non era per lui quel momento, era del popolo, si era defilato non appena dato il via ai festeggiamenti. Come un padre che lascia liberi i figli di sfogarsi mentre li sta già piangendo in silenzio. Perché il Dar’ lo sa che pochi torneranno da lui ed è lui a bere in silenzio nella tenda del Re, facendo memoria dei caduti e di coloro che per un ultima volta amano, ridono e sono parte della sua famiglia. Perché lui è l’unico che in quella gioia non deve fingere e può lasciarsi al dolore.
Linnea ora era vestita perfettamente come una Ra’. Il trucco di guerra, tre graffi azzurri che le deturpavano il volto, le trecce raccolte in una crocchia che lasciavano scoperto il collo e la slanciavano verso l’alto, collo a cui era stato applicata una pesante catena-collare con punzonature d’oro. Altre piccole trecce erano libere di saltellarle dispettose attorno adorne di anelli.
L’armatura di cuoio e ferro era molto leggera, sembrava aver mutuato una stile elfico,forse dovuto allo scambio culturale del passato, ma erano reminiscenze superate forse adatte al deserto e meno ad un vero scontro campale come quello di Kromdar.
Attorno a lei i Khajiti che l’avrebbero seguita indossavano i bracciali della Dea Khenarthi, tra loro vi era anche Do’Husar.
Erano tre gruppi da trenta con a capo un Ra’. Erano il meglio che potevano offrire. Erano il testamento vivente di un popolo, una razza, che aveva popolato per prima la Valle e ora dava l’ultimo sangue nel tentativo di non esser dimenticata.
Ora era il tempo del sangue.

Dal Tempio uscirono i sacerdoti della Dea dei Venti, indossavano una tunica lunga e candida, non portavano gioielli e al fianco di ognuno vi era un lungo coltello rituale dal manico d’argento.
Il corteo era composto da cinque gatti. Camminavano flemmatici, in fila indiana. Il muso, all’altezza degli occhi, era dipinto con una striscia di colore nero che univa le orecchie feline. Erano gli angeli della morte, emissari della Dea più crudele, altri la definivano più giusta poiché non guardava in faccia a nessuno. Probabilmente la verità, come il più delle volte, stava nel mezzo e quel trucco alludeva alla benda che negava la vista alla Dea nelle rappresentazioni votive in pietra.
I sacerdoti non erano soli nella passeggiata che li portava lentamente a visitare tutto il centro città. Circumnavigavano il Tempio del dio Alkosh accompagnati da una vestale, o qualcosa di simile che dopo il loro passaggio schizzava i presenti di un liquido rosso, cupo e denso. Il bastone usato era in realtà una fascina di erbe dal sicuro potere mistico, ma era ciò che gettava a sapere di ferro e suscitare l’eccitazione dei benedetti.
Tutti è i novantatré gatti della Compagnia Khajita furono innaffiati dal liquido, poi i sacerdoti si fecero intorno a Linnea.
Il Piatto Sacrificale era vuoto, doveva esser nuovamente riempito.
Dal fondo di quella processione emerse un giovane khajita. Era una gatto longilineo, giovane, forse troppo per quello che sarebbe accaduto. Sicuramente lo era per Linnea.
Gli occhi azzurri furono bendati senza che egli protestasse, negandogli la luce e la mira sulla bottiglia di skooma che fu forzato a bere tutto d’un fiato tanto che in parte gli colo sulle vibrisse macchiandole di bianco latte e rendendo la sua visione ancor più pietosa.
“Linnea, tu che aspiri a guidare in battaglia il popolo Khajita, raccogli attorno a te i tuoi fedeli e compi il sacrificio. ”
Fu in quel momento che Linnea rimpianse di non aver vuotato la bottiglia di zucchero lunare fermentato.
I passi che la portarono al fianco dei Sacerdoti correvano troppo veloci e il cuore le pulsava come un tamburo in petto.
Era fin troppo facile capire cosa dovesse fare e doveva farlo davanti a tutti i suoi compagni.
Era orribile pensare a quanto sangue fosse servito fino ad ora per bagnare quei novantatré khajiti.
Era questa la natura più intima di un popolo che nascondeva nel sorriso i propri orrori e nella droga della skooma i propri dolori?
Linnea cercò con lo sguardo tutti coloro che l’avevano seguita fino a li, per volontà o destino.
Quando incrociò lo sguardo di J’zargo questo le annuì, negli occhi vi era comprensione per quella situazione surreale, ma nessuna esitazione. Non l’aveva costretta lui a quel gesto, non l’aveva eletta lui a Regina di un Regno in guerra.
“È il momento del sacrificio” era J’zargo a parlare, rivolto a coloro che stranieri non conoscevano gli usi del popolo dei gatti:”La Selede dovrà versare il primo sangue. Rappresenta la scelta e l’impegno che ha contratto con tutto il mio popolo. ” il khajita non si aspettava comprensione per quel gesto e la voce trattenuta in mezzo al silenzio che era calato sembrava ancora troppo rumorosa:”non farlo sarebbe gettare la malasorte sulla guerra e nessuno scende in guerra con la sfortuna come compagna, e nessuno che sceglie la guerra è spaventato dai sacrifici che questa impone”.
J’zargo Poteva solo prestarle i suoi occhi da gatto alla sovrana, poteva farsi carico in modo silenzioso del dolore che avrebbe provato e che non avrebbe mostrato: lei era la regina, era cento re, era lui e tutti i presenti.
Il Sacerdote mise in mano a Linnea il coltello. Era affilato quanto bastava a recidere le arterie e le vene più profonde senza portar dolore. Una morte pulita, pietosa. Se ve ne fosse stata mai una.
Il piccolo khajita respirava velocemente, Linnea poteva percepire la paura, ma al tempo tessa una profonda serenità. Era uno dei Ri’Sallad, uno dei martiri viventi, nati e cresciuti per quello.
Era il destino dei Khajiti dal pelo bianco. Venivano separati dalle cucciolate e cresciuti nel Tempio, erano il tributo agli Dei più puro e degno di eventi come questo.
Il Primo dei Sacerdoti aiutò Linnea, ma non si sostituì a lei, la guidava nei movimenti, come una madre che spiega alla figlia come preparare una torta.
Era naturale e la carne offrì una blanda resistenza.
Un singulto e con il Sacerdote la Regine accolse tra le Braccia quel corpo privo di vita.
Linnea si macchiò del sangue Khajita, era stata la sua scelta, gli occhi di J’zargo non la lasciarono mai era una presenza compassionevole quella del felino e quando il popolo urlò di gioia al sacrificio lui restò impassibile perché i suoi occhi erano quelli di Linnea così come il suo cuore e l’animo lacerato per qualcosa che la Sovrana poteva condannare ma a cui non poteva sottrarsi.
Linnea era ricoperta di sangue, Linnea era una Ra’.
“Abbiamo una nuova Ra’” disse il Sacerdote, mostrando al popolo Linnea in quello spettacolo di fascino e scempio:”ribattezzata Ra’Shaiva, la portatrice di guerra, del riscatto, ultima dei Ra’Khajiti”

Il piatto sacrificale fu nuovamente colmato, la vestale poté riprendere il proprio compito, benedicendo di un liquido caldo, rosso, cupo e denso coloro che mancavano.

In sottofondo, Guren che fino a quel momento si era accompagnato alla giovialità di Arroann, si affaccendava per esser il primo a sporcarsi di quel sangue, conosceva i riti e credenze khajite e non sembrava sconvolto o sorpreso, era orgoglioso della sua Regina:”Guardala J’zargo, è bellissima, spero di trovar una degna morte accanto a lei!”
Il gatto aggrottò la fronte perplesso:”non capirò mai voi umanoidi, non ha pelo e pergiunta solo due capezzoli….”

Gli occhi acquosi della regina riflettono le immagini del mondo che la circonda. I volti dei khajiti che si susseguono attorno a lei in quella danza che è il rito della sua vestizione . Le unghie passano sul suo volto disegnandole cicatrici blu, simboli di guerra, simboli di un combattente.
E così, quando si ritrova nei panni di un re guerriero, si accorge di non Sentirsi del tutto fuori posto: come una crisalide diventata farfalla anche quella trasformazione di Linnea ne rappresenta una evoluzione.
Non vuole essere una conquistatrice di popoli, non vuole imporre nuovamente il suo dominio, ma vuole combattere. Combattere contro il caos e la cenere che stanno divorando la terra a cui è legata con il sangue.
Ed ecco, attorno a lei, un popolo quasi dimenticato. Un popolo orgoglioso e fiero, antico e vibrante, che si schiera per servire un re che viene da un mondo diverso anche se è il medesimo. Guidare qualcuno che ti si affida completamente non é come muovere pedine di eserciti su una mappa, o come impartire ordini da una tenda fatta di drappi di seta e velluto.
No. Quello che lei si appresta a fare é guidare una ribellione nella sua stessa terra, e quello che farà sarà raccogliere i popoli, uno ad uno. Dovrà guardarli in faccia, conoscerli come mai nessuno dei suoi predecessori ha fatto. Vivere. Vivere con loro. Guardarlo negli occhi come ora sta facendo com quelli dei tre Ra’ e dei loro trenta uomini.
Il cuore dell’ Elfa batte così velocemente che sembra quasi tremare.
Nessuno le ha insegnato quello che sta per fare, nessun libro, nessun Maestro, neppure suo Padre.
Se nella sua mente é difficile crescere per diventare tutto quello, le é quasi impossibile comprendere quello che accade dopo.
Osserva il gruppo di khajiti, i suoi khajiti, mentre vengono benedetti co un liquido denso, rosso, vischioso. Ma è solo quando quel piatto vuoto viene rivolto verso di lei, in attesa che lo riempia nuovamente , che si rende conto della natura di quella sostanza.
Sangue.
Non sangue qualsiasi. Sangue di khajita. Sangue di un sacrificio . Sangue di un innocente.
Un dolore reale, consistente, vivo, le punge il torace, mentre smette di respirare per qualche istante .
Linnea cerca una soluzione, un appiglio , un miracolo forse che la tolga da quella scomoda posizione in cui sta per finire, ma la cosa più simile ad un consiglio che incontr sono gli occhi di J’zargo. Il suo sguardo felino e complice, rassicurante, comprensivo.
Resta qualche istante su di lui. Perdendosi nel taglio verticale della sua iride, cercando in quest la forza per un gesto che nella sua mente e nel suo cuore é assurdo e privo di senso.
Il candido khajita dal pelo incolore come la neve è davanti a lei, odora di skooma e di olii speziati. Ne percepisce l’agitazione, ma non sente traccia di paura. La mano del sacerdote si chiude sulla sua, obbligandola a stringere l’elsa della lama sacrificale.
“È il suo destino. Versa il suo sangue perché quello dei suoi fratelli non venga sprecato. Ognuno di loro non ha mai sanguinato una volta nella loro vita prima di adesso. Quando il suo sangue bagnerà te ed i tuoi compagni allora la malasorte sarà accontentata e tenuta a bada”
Linnea ascolta, le dita strette con troppa forza su quel l’arma che non vorrebbe usare. È abituata a vedere giovani morire, certo, ma nell affrontare prove da loro scelte, non sacrificati dalla mano di un fratello o, peggio ancora, dalla sua.
“Non recare disonore a questo khajita. Altrimenti ricadrà su di te e su coloro che guiderai. É un sangue che va versato”
Conosce davvero così poco questo popolo?
Il respiro di Linnea si fa veloce, mentre le guance sotto la pittura blu perdono colore. Versare del sangue prima ancora di combattere. Versare del sangue per loro. In quel momento vorrebbe solo aver bevuto più skooma.
É un gesto elegante quello che il sacerdote le fa compiere . Semplice. Privo di violenza o cattiveria.
Il sangue del giovane le schizza su volto, mischiandosi alle linee blu, in un disegno tribale e grottesco che risplende sulla pelle della donna, sulla sua bocca, tanto che sente il sapore con la punta della lingua. É costretta a deglutire un fiotto di acido e dolore.
“É un buon segno” dice il sacerdote indicando il sangue che bagna il volto ed il collo della donna.
Linnea era ricoperta di sangue, Linnea era una Ra’.
“Abbiamo una nuova Ra’” dice il Sacerdote, mostrando al popolo Linnea in quello spettacolo di fascino e scempio:”ribattezzata Ra’Shaiva, la portatrice di guerra, del riscatto, ultima dei Ra’Khajiti”
La vestale riprende la ciotola colma di sangue, mentre altre due si occupano del corpo del ragazzo “lo portano in trionfo ” spiega il sacerdote.
Macabro trionfo, pensa la regina che ancora stringe l’elsa della spada con la mano tremante.
Solleva lo sguardo , mentre il sangue viene fatto schizzare sui presenti, su tutti, nessuno escluso, anche sui suoi riluttanti compagni.
“Non credevo che l’avresti fatto” Era Ra’Zan’Kir a parlare, con lui i suoi pari che fissavano Linnea con occhi nuovi.
“Ra’Shaiva ora sei come noi, porti la morte ai tuoi stessi fratelli conducendoli in battaglia” era la volta di Ra’Navani, uno strano modo di darle il benvenuto, Ra’Shaiva era il nuovo nome con cui l’avrebbero conosciuta e con cui le avrebbero sempre ricordato il sacrificio fatto.
“La nostra vita è tua, per nostra libera scelta, fino a quando perseguirai lo scopo comune o fino a che lo consentirà il nostro onore.” L’ultimo a parlare fu Ra’Motaba e se vi fosse mai stato un khajita somigliante a Guren per semplicità di pensiero quello era lui.
“Di solito i Ra’ agiscono alla pari, ma questi sono tempi eccezionali e pertanto per noi sarai Ri’Shaiva” concluse Ra’Navani con questo riconoscimento i Tre portarono la zampa sul cuore e chinarono il capo al loro capo branco.
A suggellare il patto i khajiti bevvero dal piatto sacrificale un piccolo sorso di sangue ancora caldo, poi lo passarono all’Elfa.